UNA PROVA SEVERA COL TEMPO SMUSSATA

di Domenico Starnone

(La Repubblica, 21 giugno 2005)

Cominciamo da lontano. Ho fatto l'esame di maturità all'inizio degli anni Sessan­ta. Posso legittimamente definir­lo "di maturità" perché ho fre­quentato il liceo classico. Se fossi stato - mettiamo - studente di un istituto magistrale o di un tecni­co, avrei dovuto dire esame di abilitazione. Era ancora il tempo in cui di maturità si poteva parla­re solo per i giovani del classico e, in subordine, per quelli dello scientifico. Tutti gli altri - la gran parte de­gli studenti italiani, - non maturavano; do­vevano solo dimo­strarsi abili e abilitar­si. Così prescriveva la scuola riformata da Gentile, nel 1925.

All'epoca ho sgob­bato molto. Ho fatto esami scritti che pre­vedevano che sapessi comporre in bell'ita­liano e tradurre in la­tino, dal latino e dal greco. Mi è andata co­munque meglio che alle generazioni pre­cedenti. Prima, se si sgarrava pesante­mente nelle prove scritte, si era esclusi dall'orale. Ora, dal 1958, non più. Facevi gli scritti, sbagliavi tutto, ma andavi co­munque agli orali, su tutte le materie. Poi crollavi lì.

Feci sufficientemente bene sia gli scritti che gli orali. Poiché so­no stato uno studente diligente, mi ricordo il tempo che precedet­te gli esami come un curvo stu­diare per dieci ore al giorno. Cosa studiassi, non lo so. La memoria dell'angoscia ha cancellato pre­sto quella dello studio. Scivolai davanti ai membri della commis­sione come un automa. Chi era­no? Gentile aveva previsto tra i commissari, nei licei classici, ben due professori universitari. Ma gli accademici avevano altro da fare. Ai miei tempi c'erano ormai solo professori di ruolo o abilita­ti, e al massimo un preside che presiedeva. Mi è rimasta in men­te una radiosa commissaria di italiano che si entusiasmò per il mio compito, pura aria fritta sul tema: la funzione del dolore in Manzoni e Leopardi; e un senso di fatica snervante e vana.

Poi l'ho rifatto spesso, da inse­gnante, l'esame. Nel 1969 lo ri­toccarono pesantemente, per far piacere alle scuole private che dà sempre chiedevano un esame più facile, così da aumentare il lo­ro volume di affari, e per acquie­tare il '68 egalitario, al quale in quell'occasione fu concesso che finalmente anche l'esame delle, magistrali e dei tecnici si chia­masse di maturità. Una volta pro­fessore, l'avvicinarsi della prova di stato mi ha dato angoscia allo stesso modo che da studente. Te­mevo per i miei alunni. Anche se ormai gli esami scritti erano, col rattoppo del'69, solo due e le ma­terie per il colloquio solo quattro, indicate per tempo dal ministero. Anche se le materie oggetto di esame orale presto diventavano di fatto da quattro due (la prima scelta dalla commissione e la se­conda scelta dallo studente). An­che se la materia scelta dalla commissione era spessissimo "suggerita" alla commissione stessa dal membro interno, amico degli studenti e informatissimo sulle loro necessità. Mi preoc­cupavo ugualmente, perché li ve­devo comunque divorati dall'an­sia. La commissione esaminatri­ce, sebbene senza accademici, ispettori e ormai nemmeno pre­sidi, sebbene senza funzioni vere di controllo, era pur sempre una commissione esterna, burbera, imprevedibile, attenta ai sigilli con la ceralacca o il nastro adesi­vo.

Insomma sono andato in pen­sione persuaso che bisognava trovare il modo per abolire l'esa­me di maturità. Infatti di recente l'hanno abolito, ma fingendo di restaurarlo. Le prove scritte ora sono tre, due ministeriali e una concepita dalla commissione esaminatrice. Comportano un punteggio che getta una sua om­bra cupa. L'orale è un colloquio su tutte le materie dell'ultimo an­no, a partire da una tesina pluvi­disciplinare che il candidato pre­senta a inizio esame. Non robet­ta, dunque, stando alla lettera. Non scuola facile e oziosa. Ma c'è un ma. Non c'è più commissione esterna. La commissione esami­natrice è composta dagli stessi insegnanti che hanno istruito i loro allievi per un triennio. Sì, c'è un presidente che viene da fuori, ma serve a onorare la forma. La sostanza è che gli esaminatori so­no gli stessi insegnanti che, con giudizio meditato o pregiudizio, hanno già valutato gli studenti nel corso di un triennio. Si fanno diligentemente conti ragioniere­schi per sommare scritti, orali, crediti (la lezione di religione cat­tolica è un credito o no?). Si stila una gerarchia senza sorprese di bravissimi, bravi, così così. Rara­mente si boccia, perché la gran parte di quelli che arrancano è già morta all'istruzione lungo il per­corso dalle elementari in poi.Il risultato è un esa­me che non ha più funzione. E' difficile che sovverta le gerarchie di merito fissate nel corso dell'anno scolastico. E non essendoci esaminatori esterni, sicuramente ha perso il suo scopo originario, vigilare sulla parità tra scuola pubblica e scuola pri­vata, come da Costi­tuzione, valutare paritariamente, come a partire dalla riforma Gentile, i risultati conseguiti dagli allie­vi delle scuole statali e non statali. Cosa può assicurare, infatti, una commissione in­terna, cosa può valu­tare, se non quello che ha già assicurato e valutato nel corso dell'anno? Si dirà: l'esame serve comun­que a sancire la maturità degli al­lievi. In che senso? La maturità scolastica significava poco già ai tempi di Gentile. La parola perse sostanza da subito, già quando fu usata per l'esame del classico e dello scientifico. Cosa sarebbe accaduto, infatti, se una commis­sione folle avesse voluto davvero accertare, candidato dietro can­didato, le modalità secondo cui ogni singola materia era stata maturamente assimilata? Quan­to feroce sarebbe stata la selezio­ne? E quanto feroce sarebbe oggi?  Infatti anche il nuovo esame di maturità sta mettendo a punto un suo trantran con deprimente ragionevolezza. I ragazzi studiacchiano quello che possono, tanto sanno che i giochi sono già fatti. E gli insegnanti si attengono ai temi della tesina multidisciplinare, stando attenti a non scantonare per non metterli e non mettersi in difficoltà.

A conti fatti, forse l’esame di maturità è diventato solo l’evento conclusivo degli studi medi che, comunque si metta, sarà ricordato volentieri, servirà a dire ai fratellini e poi ai figli e poi ai nipoti: quando andavo a scuola io, sì che si studiava. O forse no, è un inizio: il primo esame di quell’esamificio parcellizzato e caotico che è l’università.