L’uomo flessibile
GAD LERNER
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Da
qualche giorno una malaugurata illusione ottica ha posto al centro del
dibattito pubblico italiano lo scontro fra due opposti Paperon
de' Paperoni: il miliardario Silvio Berlusconi
e il miliardario Diego Della Valle.
La realtà sociale pare quasi indietreggiare
cedendo spazio ai due campioni rappresentativi di affascinanti storie di
successo. Certo, permane evidente la distanza fra i comportamenti dell'uno e
dell'altro patron. Ma la caricatura
alla fine ci costringe a semplificare, a scegliere fra due primattori
del capitalismo eletti a simbolo di opzioni politiche alternative. Ormai
assuefatti come siamo alla crescita esponenziale delle disuguaglianze di
reddito, si sono modificate anche le nostre nozioni di giustizia sociale e di
rappresentanza dei conflitti.
Al contrario, in
Francia sembra tornata i lotta di classe. Con un protagonista uovo, impossibile
da mortificare in a mera dimensione identitaria etnico-religiosa: è
scoppiata infatti a Parigi la rivolta dell'uomo flessibile. Che può essere anche
bianco, battezzato, insomma figlio nostro.
L'uomo flessibile è quello che più di ogni altro subisce l'apartheid che separa
i lavori protetti da quelli che non lo sono, me
scriveva ieri Barbara Spinelli su
In Francia come in Italia, l'uomo flessibile
è innanzitutto il giovane condannato a una dimensione esistenziale precaria.
Una condizione che secondo i dati resi ti dalla Banca d'Italia riguarda addirittura
la metà dei nuovi entrati nel mondo del lavoro nel 2005. Rovesciando le aspettative
fino al punto che i giovani laureati, almeno inizialmente, percepirebbero secondo
l’Ires Cgil un reddito inferiore ai giovani
lavoratori non laureati.
Sono anni che predichiamo a questi giovani la fine del posto fisso. Li incoraggiamo all'autoimprenditorialità.
Spieghiamo loro che senza propensione al rischio, senza disponibilità al
cambiamento insomma senza flessibilità - non c'è futuro.
Alla metamorfosi dei sistemi produttivi, all'economia dei downsizing delle ristrutturazioni, si è infine sommato il nuovo tempo di
guerra che è per sua natura il tempo dell'incertezza.
Così il messaggio si fa ancor più confuso. Perché nella morale bellica e nel
linguaggio comune un uomo inflessibile resta assai più ammirevole dell'uomo
flessibile. Ma è invece dell'uomo flessibile che il sistema mostra di avere
bisogno. Senza alcuna garanzia che l'incertezza si traduca in miglioramento. Al
contrario.
La flessibilità come virtù è il contenuto prevalente di tutte le modifiche
legislative introdotte nel diritto del lavoro e, ancor più, nell'esperienza
quotidiana di chi è in cerca di primo impiego. La pretesa
ideologica
che accompagna tale innovazione è ambiziosissima: si tratterebbe di realizzare
una rivoluzione antropologica vincendo un bisogno di sicurezza liquidato come
retrogrado. Quasi che l'economia di mercato si incaricasse di realizzare il
sogno totalitario in cui prima di lei aveva fallito il marxismo: plasmare finalmente
l'uomo nuovo, cioè, appunto, l'uomo flessibile. Prima nel mondo povero, ma
adesso pure in casa nostra.
Non voglio qui discutere
le stringenti necessità che sospingono l'economia europea a riformare i meccanismi
d'accesso e di tutela del lavoro subordinato. Anche se sarebbe meglio
verificarne per tempo gli esiti pratici nella mecca del pensiero unico, cioè
all'interno del modello sociale statunitense: dovremo pur riconoscere che
neanche il prolungato ciclo economico di crescita degli Usa ha invertito la
tendenza al peggioramento delle condizioni di vita ai gradini bassi della scala
sociale.
Ma
senza troppo fantasticare su possibili modelli alternativi, mi limiterei a segnalare
una ragione forte che già accomuna i giovani francesi in rivolta e gli ancora
fin troppo sottomessi giovani italiani nel respingere come ingiusta la
flessibilità prospettata loro.
Da
che pulpito viene la predica?
Voltiamoci
un attimo indietro e guardiamo come si sono comportati negli ultimi vent'anni
i teorici della flessibilità, a cominciare dagli imprenditori italiani e
francesi.
Troppo
facile elogiare la propensione al rischio quando si tratta di intaccare le
garanzie dei soggetti sociali più deboli, e poi rifugiarsi al riparo della
concorrenza quando si tratta di proteggersi dal rischio d'impresa. Perché mai a
rischiare dovrebbero essere per primi i nuovi venuti e i poveracci? Davvero, a
cominciare dal nostro monopolista presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, si è predicato bene
e razzolato male. Quanta parte dei profitti industriali viene reinvestita in
rendite finanziarie? A quante illegittime spartizioni di mercato abbiamo assistito?
Quanti grandi imprenditori si sono rifugiati nella cuccia calda delle
concessioni governative? Quanti fallimenti aziendali abbiamo visto
corrispondere alle centinaia di migliaia, ai milioni di fallimenti lavorativi
individuali? Come ha scritto Richard Sennett ne
"L'uomo flessibile" (Feltrinelli): «La
manualistica popolare è piena di ricette per il successo, ma non dice molto su come affrontare un fallimento».
Ho sempre saputo che quando si deve incentivare la propensione al rischio e
la rinuncia a garanzie di comodo, le élites sono
chiamate per prime a dare il buon esempio. Se si deve cambiare, comincino i più
forti a indicare la strada difficile, legittimando così i sacrifici richiesti
ai più deboli...
Risultato: né i campioni nazionali del modello statalista francese, né tantomeno
i protagonisti nostrani dei patti di sindacato e dell'economia di relazione,
hanno i requisiti minimi per chiedere ai giovani di trasformarsi in uomini
flessibili.
Questo è l'handicap che grava su ogni politica riformista in materia di diritto
del lavoro, spiace dirlo a Pietro Ichino e agli altri
studiosi che denunciano la plateale ingiustizia dei due mercati del lavoro subordinato:
quello di serie A tutelato dai sindacati, e quello di serie B in cui i precari
sono abbandonati a se stessi.
La rivolta dei giovani francesi e la silenziosa
disillusione dei giovani italiani sono entrambe alimentate dalla
scandalosa assenza di credibilità evidenziata dai rispettivi
establishment.
La parola "rischio", ricorda Sennett,
deriva dall'italiano rinascimentale risicare,
cioè "osare". Ma quelle erano società giovani e aperte. I
politici europei contemporanei misurano i loro consensi di fronte a un
elettorato sempre più anziano, e dunque se non interverranno modifiche
radicali nello stesso suffragio universale (per esempio l'assegnazione di più
voti alle famiglie con figli minorenni) sarà ingenuo fare affidamento sulla
loro lungimiranza.
Ecco allora puntuale riesplodere la tradizionale
collera francese, anticipatrice di un moto destinato a spaccare anche la nostra
società. I giovani sono David che
fronteggiano il Golia della flessibilità, scrive ancora Sennett.
Ma la rottura di solidarietà intergenerazionali
rischia di avere effetti di lungo periodo non riducibili a un, per quanto
biblico, duello. Perché, attenzione: «Un regime che non fornisce agli esseri
umani ragioni profonde per interessarsi gli uni agli altri non può mantenere per
molto tempo la propria legittimità». Si prospetta nella rivolta contro il
precariato una vera e propria crisi di sistema. Il capitalismo flessibile emana
un'indifferenza agli sforzi umani e al destino delle persone senza precedenti nelle esperienze comunitarie del passato.
La pretesa di forgiare l'uomo flessibile rischia di rivelarsi per lo meno altrettanto nefasta della clonazione umana.