William Shakespeare
Giulio Cesare


Introduzione di

Agostino Lombardo

In quest’opera "romana" che poteva essere una celebrazione non vi sono eroi ma soltanto uomini. Non vi sono eroi nemmeno nel senso teatrale dell’espressione, ché Cesare, pur dando il titolo al dramma, muore all’inizio del terzo atto (producendo grande scandalo in età classicistica), di modo che sempre maggior rilievo acquistano Bruto, Cassio, Antonio e, alla fine, Ottaviano. Ma non ve ne sono specialmente nel senso che di nessun personaggio Shakespeare mira a porre in rilievo la qualità "eroica", giungendo anzi, nella chiara e ferma intenzione di sottolineare gli aspetti umani oltre che politici della vicenda, a operare una vera e propria demitizzazione. Si veda il brano (I, 2, 96-110) in cui Cassio, per indurre Bruto a partecipare alla congiura, riferisce l’episodio di Cesare che rischia di annegare nel Tevere e chiede aiuto. Subito dopo, questo "stanco Cesare" che Cassio racconta di aver portato sulle spalle come Enea "il vecchio Anchise" (il ricordo virgiliano è sempre vivo, in Shakespeare, come quello ovidiano) viene raffigurato mentre, preda della febbre e della paura, chiede da bere "come una ragazzetta ammalata". D’altro canto, la "riduzione" di Cesare non viene effettuata da Cassio soltanto ma dallo stesso drammaturgo: è la dimensione che Shakespeare impone al suo personaggio, anche allontanandosi da Plutarco (che pure è a volte seguito puntigliosamente). Cesare ha la posizione, il rango di un eroe, di un semidio, ma ecco che le sue prime parole, mentre regalmente avanza in mezzo alla folla, sono di esortazione alla sterile moglie Calpurnia affinché, durante la corsa dei cocchi, si faccia toccare da Antonio sì da ottenere il dono della fecondità (I, 2). Più oltre, nel momento stesso in cui orgogliosamente afferma la propria grandezza, ci si rivela che è sordo da un orecchio, mentre più avanti Casca riferisce di un suo svenimento e Bruto parla del suo "mal caduco" (I, 2). Finché, nella seconda scena del secondo atto, in cui troviamo Cesare in casa (gli interni domestici sono caratteristici dell’opera, in contrapposizione agli spazi aperti in cui viene costruita scenograficamente Roma), l’eroe, il semidio, sembra del tutto scomparso. Cesare indossa la sua "camicia da notte" mentre fuori si scatenano gli elementi; Calpurnia lo esorta a non recarsi in Campidoglio (sono, come si sa, le Idi di Marzo) e Cesare, se in un primo momento appare irremovibile, cede poi di colpo alle pressioni di lei. Poco dopo Decio Bruto riuscirà a persuaderlo a tornare sulla sua decisione, ma ciò, lungi dal ricreare un’immagine eroica, non fa che accentuare gli aspetti umani, e persino patetici, del personaggio.

Tale processo di demitizzazione è certo legato anche a quella denuncia del cesarismo che Shakespeare, pur mantenendo una sorta di neutralità morale di fronte alla congiura, non manca di esprimere. Va detto però che esso non si attua soltanto nei confronti di Cesare bensì di tutti i personaggi, i quali non sono statue ma appunto uomini e perciò hanno sentimenti (come l’amore di Bruto e Porzia – e si veda la bellissima scena prima dell’atto secondo), debolezze, preoccupazioni; amano l’oro (e si veda lo scontro fra Bruto e Cassio nella terza scena del quarto atto) e il potere; commettono errori (e Bruto più di ogni altro); hanno incubi, paure, allucinazioni; litigano persino senza ritegno; sono spesso moralmente e fisicamente fragili.

Il fatto è che una delle intenzioni centrali del dramma, oltre quella di mostrare l’umanità dei personaggi, è di offrire, attraverso e al di là della rievocazione storica, un’immagine della umana fragilità e mutevolezza, nonché di ciò che potremmo modernamente definire la relatività del reale. Se non ci sono eroi, nel Giulio Cesare, è perché non ci sono certezze, non ci sono valori assoluti. Tutto passa e tutto cambia; i miti sorgono e decadono per essere sostituiti da altri che a loro volta crolleranno (ed esemplari, in questo senso, sono le grandi orazioni di Bruto e Antonio nella seconda scena del terzo atto e gli effetti che producono); la realtà è inafferrabile e sfuggente, osservabile, come un’opera manieristica, da mille punti di vista (sarà questa una delle cifre dell’Antonio e Cleopatra), suscettibile di mille interpretazioni, nessuna delle quali è sicuramente vera come nessuna è sicuramente falsa. Indicativa in sommo grado di questa inafferrabilità e ambiguità del reale e della storia (suggerita anche dalla frequenza con cui compaiono immagini del fuoco) è la scena (I, 3) in cui la terra è detta muoversi "come una cosa malferma"; e d’altra parte, se il movimento della terra, l’uragano, i portentosi segni del cielo e della natura colmano Casca di terrore, Cicerone osserva che "gli uomini possono costruirsi le cose / A loro modo, al di là del proposito / Delle cose stesse", mentre Cassio capovolge il significato del fenomeno.

Di una differente, più generale situazione questo e altri dialoghi sono emblematici, e cioè dell’individuazione da parte di Shakespeare, attraverso la rappresentazione di un episodio di storia romana, di alcuni dei nodi cruciali della condizione contemporanea. Nel Giulio Cesare (e negli altri drammi "romani"), se troviamo un’interpretazione della storia romana quale le fonti e la tradizione l’hanno trasmessa; e se troviamo un’elaborazione di motivi attinti alla tradizione medioevale (ché quelli della "caduta dei principi", della precarietà della sorte, della transitorietà delle cose umane sono anche alcuni dei grandi motivi della letteratura e del teatro del Medioevo); troviamo però anche una realtà che è riconoscibilmente (si ricordi che l’opera è del 1599-1600) quella dell’Inghilterra prima della morte di Elisabetta (1603), quando l’evento che si prepara (la regina è senza eredi) non solo getta l’ombra della precarietà sulla monarchia Tudor e sullo stato (onde la scelta di un argomento come quello della congiura), ma anche e soprattutto mette a nudo i contrasti economici, sociali, religiosi, politici che porteranno tra non molto (nel 1642) alla Rivoluzione puritana e all’affermazione della borghesia. Troviamo inoltre una realtà intellettuale che le scoperte astronomiche, geografiche (fondamentale naturalmente la scoperta dell’America), scientifiche e il travaglio di quella Rinascenza, "animata", come scrive Benedetto Croce nel suo saggio su Shakespeare del 1919, "da nuovi bisogni, da nuovi impeti religiosi, da ricerche di nuove orientazioni filosofiche, travagliata dalla scepsi, solcata da lampi dell’avvenire", rendono il terreno su cui crolla l’"ordine" del Medioevo. I versi famosi dell’Anatomia del Mondo (1611) di John Donne – "La nuova filosofia mette tutto in dubbio. / L’elemento del fuoco è spento. / Perduto è il sole, e la terra, e non c’è ingegno umano / Che possa dire all’uomo dove cercarli... Questo mondo / È tutto sbriciolato in atomi, / È tutto in pezzi, ogni coerenza scomparsa..." – ci forniscono la chiave per intendere Donne e la poesia "metafisica", ma pure (e non a caso nelle scene già ricordate i congiurati non trovano più i punti cardinali) gettano luce sulle ragioni che muovono Shakespeare a dar volto teatrale a un mondo (com’è quello del Giulio Cesare) oscuro, sfuggente, problematico e senza "coerenza". Un mondo la cui natura è suggerita dalla scena (III, 3) in cui il poeta Cinna, dopo l’orazione di Antonio, viene ucciso perché scambiato per Cinna il congiurato. E, ancor più, da quella (V, 3) in cui Cassio si uccide per aver erroneamente creduto che Bruto, durante la battaglia di Filippi, sia stato sconfitto. Un mondo che l’uomo (e cioè l’uomo moderno) deve ormai affrontare con le proprie forze e al quale deve tentare di dare un significato senza appoggiarsi a un universo di dei o alla dantesca armonia che lo aveva sostenuto nel Medioevo e fino a qualche decennio prima. L’uomo copernicano, l’uomo della Riforma, l’uomo di Montaigne, di Bacone, di Giordano Bruno e di Galilei è solo con la propria ragione e la propria conoscenza e scienza: solo come Bruto di fronte al problema dell’uccisione di Cesare.

La solitudine di Bruto – morale e fisica, come nell’Amleto, che è dell’anno successivo (1600-1601) – è certo uno degli elementi che lo rendono il personaggio in cui la crisi elisabettiana maggiormente si incarna. Ma altri se ne dovranno sottolineare: da un lato quelli che lo vedono rivolto al passato, alla tradizione, all’autorità e che confluiscono tutti nel suo attaccamento per Cesare; dall’altro quelli che lo vedono proiettato verso il futuro: il suo desiderio di libertà; il suo rifiuto della dittatura e cioè di un sistema che viola quella dignità individuale che il Rinascimento e la Riforma hanno affermato; la consapevolezza morale che lo fa esitare ma che, come in Amleto, non è viltà bensì è segno dell’interiore dibattito di un uomo diventato responsabile del proprio destino. E il dato del personaggio che lo rende tanto universale quanto pienamente, e dolorosamente, emblematico della modernità cui appartiene sta nel fatto che gli elementi in conflitto non si compongono in armonia e che il dubbio, il problema di Bruto, non si risolve – o si risolve solo esternamente.

Il personaggio di Bruto è invero perfettamente in carattere con l’opera tutta, con le idee e le disposizioni che la sostanziano. La forma stessa del Giulio Cesare – una costruzione lineare e severa la cui "romana" geometricità e solidità è però soltanto apparente, incrinata com’è da immagini (l’acqua, il fuoco) e situazioni che ne rivelano la friabilità; una forma tragica che è tuttavia priva dei valori e dei punti fermi che rendono una tragedia pienamente possibile; una struttura linguistica che denuncia tutta la possibile ambiguità e illusorietà del linguaggio –, questa forma è l’omologo della realtà che ne costituisce la sostanza e l’oggetto.

Ed è in questa realtà che Bruto – come Cassio, come ogni altro personaggio, compreso lo stesso Cesare – è costretto a operare; è questo il mondo che egli cerca di comprendere, di spiegare, di collegare con il passato e insieme di puntellare con valori nuovi, che nascano dall’interno e non dall’esterno della coscienza. La sua storia, così, si identifica – ma non certo sul piano superficiale dell’autobiografismo – con quella del poeta stesso, che nel Giulio Cesare ci appare, come l’"intellettuale" Bruto, da un lato diventare consapevole della nuova, difficile realtà che si presenta all’uomo, e all’intellettuale, quando l’ordine tradizionale è scomparso così come scompare Cesare; dall’altro impegnarsi nello sforzo di decifrarla, di chiarirla a se stesso e agli altri attraverso il teatro (e forse per questo troviamo qui, nelle parole di Cassio dopo l’uccisione di Cesare, uno dei rari momenti di esaltazione del teatro: "In quante / Età future questa nostra scena / Sublime verrà recitata, in stati / Ancora non nati e con accenti / Ancora sconosciuti!", III, 1, 111-113). Tale sforzo si esplicherà con totale impegno nell’Amleto, dove la domanda di Bruto, posta al centro dell’opera, si amplia straordinariamente: non solo che fare, come comportarsi; ma anche, e specialmente, che cosa è l’uomo e quali sono i suoi rapporti con se stesso, con gli altri, con la vita, con la morte. Domande che l’Amleto pone perentoriamente e alle quali tutte le grandi tragedie successive tenteranno di dare una risposta, indagando appassionatamente sulla condizione umana e faticosamente tentando di costruire, con lo strumento teatrale, un mondo in cui l’uomo moderno possa riconoscersi. Ma il tentativo comincia appunto con il Giulio Cesare ed è per questo che con esso veramente si apre, non per motivi cronologici ma per le ragioni da cui nasce la poesia, la massima stagione dell’arte di Shakespeare.

Agostino Lombardo